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Il disegno è la più profonda tra tutte le attività umane. L'uomo che ritraeva bisonti, gufi e leoni nella grotta di Chauvet, decine di migliaia di anni fa, sapeva che per lui il sole non sarebbe sorto per sempre: si trovava di fronte alla propria finitudine e a quella del mondo in cui viveva. Nello spazio metafisico della grotta, celebrava e indagava, con tratti di carbone sulla roccia, il mistero delle apparizioni e delle sparizioni, della presenza e della morte. Da allora disegnare non ha mai cessato di essere un atto di conoscenza. Si disegna per interrogare il visibile ed esaminare la struttura delle apparenze, per dare forma alle idee e comunicarle, per esorcizzare una memoria. Il disegno, rispetto alla pittura, non tenta l'illusione di realtà, non cessa mai di mostrare la propria nuda natura di progetto. Quello che osserviamo, attraverso linee di costruzione, spazi di luce e aree di colore, è un processo: la danza della mano di un artista che tenta di fissare una molteplicità di sguardi ed esperienze nell'eterna simultaneità di un'immagine. John Berger, negli scritti che compongono "Sul disegnare", segue la danza delle mani sulle rocce di Chauvet, quella di Vincent van Gogh che trasforma in immagine la sua capacità di amare la materia, quella di Pablo Picasso che mette in opera l'orrore per il decadimento della carne. Berger segue la propria mano mentre traccia i lineamenti del volto paterno sul letto di morte, per catturare una vita intera. E attraverso gli schizzi di Giacometti, Rembrandt e Goya, mostra come disegnare sia un modo di scoprire, di catturare il mistero del reale, per amplificarlo e viverlo come evento.